Un reduce di nome Jarhead Earl (Jamie Bell) attraversa l’America rurale, devastata e miserabile, popolata in massima parte da “white trash”, buzzurri con pochi denti e meno neuroni dediti alle metanfetamine e al traffico d’armi.
La sua meta è “Donnybrook”, torneo clandestino di botte a mani nude in cui un numero imprecisato di energumeni combatte fino alla morte o alla disabilità causa trauma cranico grave. Mancano i soldi, latitano i generi di prima sussistenza, non si cambiano le mutande perché verosimilmente se ne possiede un unico paio. Una visione apocalittica del futuro? Tutt’altro: uno spietato affresco della “terra dei liberi e patria dei coraggiosi” in questi tempi cupi di disparità economica estrema e follia collettiva che ha condotto un clown col riporto alla casa bianca.
La strada per “Donnybrook” è un percorso disperato, giacché è previsto un unico vincitore, il solo a restare in piedi al termine della scontro. In palio centomila dollari e la possibilità di rifarsi una vita, far disintossicare la moglie, crescere e mandare a scuola i figli, dormire in una casa vera anziché in auto o in una roulotte. Mosso da cotanta aspirazione Jarhead Earl non si fermerà davanti a niente: peccato che, animato da motivazioni non altrettanto legittime, lo psicopatico e probabilmente incestuoso Chainsaw Angus (uno schifoso Frank Grillo) si muova nella direzione medesima, brutalizzando sostanzialmente ogni forma di vita lungo il cammino.
Alla luce incerta di lugubri tramonti e albe gelide, la discesa negli inferi dei protagonisti si dipana su strade ingombre di rifiuti (soprattutto umani) ai cui margini sorgono locali frequentati da bifolchi etilisti e rissosi. A collegare il discutibile protagonista e l’odioso villain, oltre a un’antica ruggine cui si accenna vagamente, la sorella/amante/schiava di Angus, Delia (una bravissima Margaret Qualley), autentico motore di eventi inevitabilmente luttuosi.
Nel corso della visione spiccano almeno un episodio di sesso-schifo, sporadiche esplosioni di violenza belluina, momenti toccanti tirati volutamente via a rimarcare l’asprezza dell’esperienza. Non brillano altresì le sequenze attinenti al personaggio dello sbirro corrotto (James Badge Dale), sulle tracce del terrificante Chainsaw.
Un simile concept, tratto dal romanzo di Frank Bill, non poteva che ingolosire un amante delle nefandezze come il sottoscritto, la presenza di Grillo, una garanzia di qualità (in quanto a carisma e interpretazione, dal momento che per pagare il mutuo Frank si presta anche alla realizzazione di filmacci infami come “Reprisal”). Le prestazioni attoriali sono di fatto ottime, buona la fotografia, modeste ma efficaci le coreografie di combattimento: non tutto però va per il verso giusto.
Perché? Perché il regista Tim Sutton mira alla poetica dei grandi spazi aperti tipica di un cinema d’altri tempi, mancando del talento degli illustri predecessori. Nel tentativo di emulare Terence Malick, confeziona un prodotto dignitoso che in mani altrui (quelle del più dotato Jermy Saulnier per esempio) avrebbe potuto essere un capolavoro di mostruosa intensità, una perla di cinema crepuscolare: forse non un nuovo “Apocalypse now/Cuore di tenebra” ma quanto di più affine possibile al giorno d’oggi.
Purtroppo così non è: a ogni tentativo di elevare la narrazione a un livello superiore il film scivola nella mediocrità. In ultima analisi, “Donnybrook” costituisce un’occasione irripetibile tragicamente sprecata, e fa quasi più male dei pugni nudi di Chainsaw Angus.
Nondimeno, ne consiglio la visione: per il cast superlativo, per la storia, per lo sconfortante scenario bucolico-nazi.
Concludo citando il motto, solenne e deviato, di un altro film col Grillo, nella speranza che il presente realistico di “Donnybrook” non preluda al futuro (per il momento) distopico di “The Purge”: “Benedetti i Nuovi Padri Fondatori e benedetta l’America. Una nazione risorta”.
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