Philip Roth è uno dei miei scrittori preferiti e probabilmente gli sarò sempre grata per ciò che ha scritto a pagina 39 e 40 di Pastorale Americana.
È un pensiero che mi ha sempre tormentato, ronzandomi in testa mentre guardavo la gente sorridere e andare verso non so dove ma che non sono mai riuscita ad esprimere con tanta chiarezza ed intensità.
Pastorale Americana è un libro di cui non ti liberi, parla della tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti.
Questo è il punto.
Non importa quanto duramente abbiamo lavorato e con quanto scrupolo abbiamo seguito le indicazioni; non importa quello che di buono abbiamo fatto per gli altri e gli impulsi davanti ai quali ci siamo trattenuti per fare la cosa giusta.
Non importano tutte le volte che abbiamo scelto di non ascoltare noi stessi, desideri e bisogni compresi, per fare quello che si doveva fare.
Seguire le indicazioni lungo la strada senza fare imprudenti deviazioni non garantisce nulla.
Le cose belle capitano e non sempre dipende da un nostro merito.
Succedono e basta e noi restiamo a bocca aperta a chiederci come mai.
Non c’è una risposta: la vita si comporta sempre in un modo che non ti immagini.
Allo stesso modo non c’è nulla che si possa fare per evitare il dolore, non c’è azione corretta che possa impedire al tornado di abbattersi sulla vita che abbiamo costruito.
Non ci meritiamo il dolore e non ci meritiamo la felicità.
Il duro lavoro che facciamo per prepararci ad affrontare l’imprevisto, per prepararci ad essere persone buone a cui capitano solo cose buone è assolutamente inutile.
Serve solo a consentirci di reggere lo sguardo che lo specchio ci rimanda ma resta il fatto che, quando le cose succedono, non siamo preparati.
Non siamo preparati quando ci innamoriamo e non siamo preparati quando ci spezzano il cuore.
Non siamo preparati quando la nostra famiglia perfetta nel giro di una manciata di giorni va in pezzi.
Non siamo preparati perché non c’è azione che possiamo fare che ci garantisca che il peggio non si abbatterà su di noi.
Non c’è niente che possa metterci al riparo, è un rischio che accettiamo quando sigliamo il patto con la vita.
Questa è la tragedia: non si può sfuggire al dolore.
E il dolore non guarda in faccia il merito: colpisce dove deve e quando deve.
La tragedia di tutti
Forse questo fa male più del dolore stesso: sentire che non ce lo siamo meritato.
Che, del nostro impegno e della nostra attenzione, al caso, al destino, alle circostanze o come volete chiamarlo… non frega un cazzo.
Io non meritavo di soffrire di anoressia nervosa e la mia amica Chiara non meritava il linfoma ai polmoni.
Lo Svedese non meritava di perdere la figlia e di ritrovarsi logorato, ogni giorno della sua vita, dalle stesse domande che, nonostante il passare del tempo, ferivano sempre allo stesso modo e con la stessa intensità: dov’è? starà bene? se la caverà?
Se c’è una cosa peggiore di essere vittime del dolore è sapere che questo sta dilaniando qualcuno che ami.
Perché dal dolore non puoi salvare nessuno ma questa consapevolezza non vale a liberarti dalla frustrazione di non poterlo fare.
Qualcuno sta soffrendo e i suoi fantasmi tengono sveglio anche te.
E non puoi resistere a queste sensazioni e non puoi evitare di controllare costantemente se la persona che ami sia riuscita a sconfiggerli.
Anche quando non dovresti, anche quando non vorresti perché quello che scopriresti potrebbe non piacerti.
Un po’ come la storia di Orfeo ed Euridice.
La prima volta che l’ho sentita ho pensato che fosse terribilmente stupida.
Come può qualcuno dimenticare una così semplice istruzione, come puó non resistere?
Ma ora quell’impulso mi sembra l’unico possibile: guardare dietro le tue spalle per vedere se chi ami ce l’ha fatta ad uscire dall’inferno.
It was so human
Voltarsi a guardare qualcuno che amiamo dopo che gli abbiamo dato le spalle per allontanarci è uno dei miei gesti preferiti.
È la speranza che quando sparisce dalla tua vista non sia l’ultima volta che l’hai guardato.
Jack Kerouac in On the road descrive il momento in cui Sal e Lucille si lasciano, si allontanano e dopo dodici passi si voltano: perché l’amore è un duello.
Kurt Vonnegut in Slaughterhouse five racconta della moglie di Lot che per aver contravvenuto all’ordine degli angeli di non girarsi indietro a guardare Sodoma, dov’erano rimaste le sue ultime due figlie, viene trasformata in un pilastro di sale.
Ma lui la ama per questo, per aver disubbidito.
Perché è stato un gesto profondamente umano, non c’è salvezza possibile lasciando indietro ciò che si ama, tanto vale lasciar perdere tutto e trasformasi in una statua.
Per questo Lo Svedese non riesce ad andare avanti… come puoi andare avanti quando un pezzo di te è bloccato indietro?
Ci sono cose alle quali non è possibile rinunciare, cose più importanti di qualsiasi possibile felicità futura.
Perché a volte in testa ci risuona solo questa frase ed è impossibile non darle ascolto: non potrò mai essere felice se non ci sei anche tu.
La quota di infelicità
Pagina 24.
Roth scrive:
Nessuno attraversa la vita senza restare segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità; se non, certe volte, una quota maggiore.
Ci si rassegna a seguire le regole per evitare di pagare il prezzo di star male.
Come se una vita ordinata possa metterci al riparo dall’imprevisto.
Una bella moglie, una bella casa, un’azienda magistralmente gestita.
Un padre difficile trattato abbastanza bene.
È questo che hanno le persone che sembrano felici.
Hanno successo, sono fortunate.
Dio sorride loro.
Se ci sono dei problemi, si adattano.
Poi le cose cambiano e diventa impossibile.
A volte è questione di un solo giorno e il tuo sorriso si spegne.
E allora chi riesce ad adattarsi?
Quando cerchi sempre di fare le cose per bene, il colpo che ti mette in ginocchio non te lo aspetti.
Non l’avevi programmato, non l’avevi previsto perchè avevi fatto troppa attenzione, avevi agito troppo bene perchè potesse succedere a te.
Quando hai giocato secondo le regole non sei preparato all’ingiustizia del verificarsi dell’inaspettato.
Pensi che certe cose a te non succederanno mai, che non ti possono succedere, che sei l’unica persona al mondo a cui queste cose non succederanno mai e poi, ad una ad una, cominciano a succederti tutte, esattamente come succedono a tutti gli altri.potesse capitare a te.
Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno.
La commedia degli errori
Tutto può succedere a tutti e gli eventi della vita sono spesso solo un grande caos che non guarda in faccia al merito e non guarda nel cuore alla gente e anche noi spesso siamo come questo caos, così di fretta, così cupi, così impegnati a concentrarci sulla nostra infelicità da non avere tempo per guardare gli altri e neanche per capirli, un’occhiata superficiale e sospiriamo perché a loro sicuramente va meglio che a noi.
Cazzate.
La superficie è talmente profonda che è impossibile vedere il dolore e quindi pensiamo che non ci sia.
Non vediamo gli altri e non facciamo altro che capirli male.
A pagina 39 e 40 Roth spiega tutto questo molto meglio di me:
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza?
Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati.