Sono diventata una donna di poche parole.

Così inizia il romanzo distopico di Christina Dalcher, Vox e considerato la trama fa accapponare la pelle.

In un futuro non troppo lontano, negli Stati Uniti vige la dittatura estremista e fanatista del Movimento della Purezza. Un’alleanza tra Stato – rappresentato dal Presidente Myers, un misero fantoccio privo di idee – e Chiesa, con le idee mostruose del Reverendo Corbin. Il patriarcato è al potere e si crea una spaccatura tra uomini e donne che sembra delimitare il confine tra bene e male. Alle donne vengono tolti il lavoro, il passaporto, ma soprattutto la voce.

Questo è il mondo in cui vive Jean McClellan, brillante neuro linguista costretta al mutismo, o quasi. Sul suo polso, come su quello di qualunque donna e bambina negli Stati Uniti, spicca un contatore. Un “braccialetto” malvagio che impone alle donne un limite di 100 parole al giorno. Se si trasgredisce, si riceve una scossa elettrica che va aumentando, arrivando alle ustioni e, infine, alla morte.

Le donne diventano così gli angeli del focolare tanto cari al periodo vittoriano: sono mogli, madri, figlie e casalinghe. Sono soprammobili utili a mettere la cena in tavola e riprodursi. Sono armi letali ridotte in schiavitù. L’atmosfera di Vox è tesa e soffocante già dalle prime righe, quando il lettore entra a contatto con i pensieri di Jean che spiega come la dittatura abbia trasfigurato completamente anche le più piccole abitudini. Niente più post-it, libri, favole della buonanotte, o chiacchiere su cosa succede in una semplice giornata di scuola o lavoro. Le vittime non sono solo le donne, viste come una schiera di colf pronte a soddisfare qualsiasi capriccio degli uomini che le circondano, ma anche le bambine. Basti pensare all’unica figlia femmina di Jean, Sonia, che a 6 anni sa solo contare fino a 100, ma parla a stento. “Non serve nemmeno avere una voce”, pensa Jean, perché nelle moderne scuole per Ragazze Pure si insegna solo economia domestica, tra classi di cucito e lezioni di cucina. Ma le vittime del Movimento della Purezza sono anche gli adulteri, gli omosessuali e i cospiratori, che finiscono in campi di lavoro – vi ricorda niente? – con un contatore puntato sullo 0.

Jean assiste inerme alle chiacchierate senza fine del marito, Patrick, e dei tre figli – Steven, Sam e Leo – e finisce per odiarli. C’è risentimento, c’è disprezzo e c’è quella spaccatura che ricorda tanto l’atmosfera che si doveva respirare durante nazismo e fascismo. Una discesa negli inferi in cui il Movimento irretisce giovani menti come quella di Steven a suon di ricompense, in cui si fa credere alle bambine che più staranno zitte e più premi riceveranno. Un clima agghiacciante, che fa venire i brividi mentre si legge.

Una dittatura che succede, come ci tiene a precisare l’autrice stessa, che ripete più volte questo stesso verbo nel romanzo. Come se fosse un caso se le donne non possono più leggere un libro, spedire una lettera o possedere un telefono. Donne immobili, che non possono intervenire nemmeno in minima parte.

Fino a che un giorno, la vita di Jean cambia. La dottoressa viene messa davanti a una scelta, una sorta di proposta indecente che finisce per accettare: il fratello del presidente Myers ha subito una lesione nell’area di Wernicke, nell’emisfero sinistro del cervello, che gli ha causato un’afasia. Un disturbo del linguaggio che dà il via a catene di parole senza senso, una sorta di demenza linguistica. Tornata a lavoro come neuro linguista, gomito a gomito con Lorenzo e Lin, suoi vecchi colleghi, Jean farà una scoperta sconvolgente che porta il lettore in una discesa sempre più profonda negli inferi, alle origini del male.

Che dire? Di libri ne ho letti davvero tanti in vita mia, ma mi sento di affermare che questo è il migliore letto finora. Ho adorato la trama, la costante tensione insita nei pensieri di Jean, che racconta un mondo che la disgusta. Ho trovato credibilissimi i personaggi – la sfrontatezza di Steven, la dolcezza di Sonia e la (quasi) totale immobilità del marito, Patrick – trainati dalla forza incredibile di Jean.

Ho, inoltre, apprezzato moltissimo la traduzione a cura di Barbara Ronca, la scelta accurata delle parole e il continuo rimando al mondo della linguistica. Ma più di tutto, questo libro mi ha fatto rabbrividire. Perché sono una donna e la voce è quanto di più prezioso io possegga.

Nei ringraziamenti, la Dalcher spera di aver fatto arrabbiare il lettore e con me c’è riuscita benissimo. Sono furiosa, perché non dovrebbe servire un mondo distopico per farci capire quanto valgono le donne.

Voto: 5/5

 

Se vi è piaciuta questa recensione e siete curiosi di leggerne altre, passate dal mio blog: Storia di un’accumulatrice di libri.