Fin da bambina ho amato la musica, non ne ho mai potuto fare a meno. Anche quando la giornata è satura di impegni, cerco sempre di ritagliarmi del tempo per ascoltarla, senza distinzione di genere. L’importante è che sia buona musica. Avrò avuto all’incirca otto anni quando chiesi a mio padre di comprarmi un CD, il primo di una lunga serie. Si trattava di “A Night at the Opera”, quarto album in studio della rock-band britannica Queen, pubblicato per la prima volta nel 1975. Per la verità a quell’età non avevo una chiara idea di chi fossero i Queen; ad attrarmi fu infatti la copertina dell’album, enigmatica ed ermetica. Qualche anno più tardi scoprii che fu lo stesso Freddie Mercury, frontman della band, ad aver richiesto un logo che parlasse inconsciamente del gruppo. Intorno alla “Q” sono proprio riuniti i segni zodiacali dei membri: i due leoni per Roger e John, il granchio per Brian e le ninfette vergini per Freddie, sovrastati da una fenice, simbolo di rinascita.
D’allora avrò ascoltato quell’album un centinaio di volte, diventando un’amante della band. Tuttavia ho sempre provato nostalgia al pensiero di non aver avuto l’opportunità di vedere un loro concerto dal vivo. Dunque, quando ho saputo che sarebbe uscito un film sulla storia dei Queen, mi sono precipitata al cinema.
“Is this the real life? Is this just fantasy?”
La pellicola segue i primi quindici anni della storia del gruppo, dalla formazione avvenuta nel 1970 fino al Live Aid del 1985. Uscito da poco più di un mese, il film si consacra come il biopic più visto di sempre, raggiungendo incassi esorbitanti al botteghino e posizionandosi in vetta alle classifiche. Basti pensare che solo in Italia ha superato i 7 milioni di euro di incassi. I numeri quindi parlano chiaro e non fanno che confermare la grandezza eterna dei Queen, tant’è che si parla già di un possibile sequel.
Ciò nonostante non si sono fatte attendere le numerose critiche, che hanno incolpato il regista Bryan Singer e gli sceneggiatori Anthony McCarter e Peter Morgan di aver creato un prodotto superficiale, saturo di imprecisazioni cronologiche e di look. Insomma in molti hanno sostenuto che “Bohemian Rhapsody” non rispecchiasse la reale storia della band inglese. E questo è vero dal punto di vista storico. Ma proprio quelle modifiche hanno fatto si che si potesse aggiungere maggiore tensione drammaturgica alla pellicola, che è stato in grado di riportare sullo schermo gli animi barocchi, egocentrici e geniali delle quattro regine più famose di sempre.
Bohemian Rhapsody:
Il film prende il titolo da”Bohemian Rhapsody”, canzone che ha segnato un punto di svolta nella sperimentazione della band. Il brano si caratterizza per la sua struttura musicale, composta da cinque parti diverse tra loro, divenendo simbolo della loro eterogenea produzione, in cui sono racchiusi vari generi: dalla disco al metal, passando per il progressive rock ed il gospel.
La stessa pellicola può essere suddivisa in cinque sezioni, proprio come quelle che strutturano la canzone: si parte con un’introduzione corale a cappella in cui siamo catapultati al 1970 dove un giovane Farrokh Bulsara, studente di college e gestore di bagagli all’aeroporto, entra in una band di nome Smile, formata dal chitarrista Brian May e dal batterista Roger Taylor, che hanno da poco perso la loro voce solista.
In seguito all’aggiunta del bassista John Deacon, i quattro cambiano nome in Queen, producendo il loro primo album grazie alla vendita del loro furgone ed iniziando ad esibirsi in giro per la Gran Bretagna.
Si arriva poi ad un segmento in stile ballata che termina con assolo di chitarra. Grazie al loro successo si legano alla casa discografica EMI. Nel frattempo Farrokh cambia il suo nome in Freddie Mercury e si fidanza con quella che sarà l’amica di una vita, Mary Austin.
Inizia il passaggio d’opera nel 1975, anno in cui i Queen decidono di sperimentare, dando alla luce quello che sarà uno degli album più belli della storia della musica: “A Night at the Opera”. Cult è già diventato il cameo di Mike Myers, interprete del discografico dell’etichetta EMI, che si rifiuta di pubblicare il brano di sei minuti “Bohemian Rhapsody”, proprio lui che in “Fusi di testa” decise di iniziare il film con una scena in cui i protagonisti sparano la stessa canzone a tutto volume in auto. Myers volle omaggiare il gruppo, nei confronti del quale l’America rimase sempre un po’ fredda.
Si giunge in seguito ad una sezione di hard rock, in cui Freddie fa finalmente i conti con la sua bisessualità, portando però Mary ad allontanarsi da lui. Iniziano i suoi primi dissidi con i membri del gruppo che determinano lo scioglimento di quest’utlimo, nel momento in cui il leader accetta un contratto da solista.
Rimasto ormai orfano dei suoi reali affetti, Mercury inizia ad avere rapporti sessuali con più sconosciuti ogni notte, partecipando ad orge per lo più organizzate dal suo manager personale Paul Prenter.
Infine vi è un altro segmento in stile ballata che conclude su una sezione solo piano e chitarra, al quale si arriva nel momento in cui Mary, incinta del suo nuovo compagno e preoccupata per il suo migliore amico, si precipita da lui per esortarlo a tornare con la band ed a partecipare al concerto di beneficenza Live Aid al Wembley Stadium, di cui Paul non gli aveva detto niente. Una volta spezzato ogni tipo di rapporto con quello che credeva essere un amico, Freddie torna a Londra dalla sua vera famiglia e cioè i Queen.
Nel frattempo scopre di avere l’AIDS, malattia che indebolisce il sistema immunitario e per la quale ancora oggi, purtroppo, non è prevista guarigione. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1991 a causa di una broncopolmonite, i membri della band crearono il Mercury Phoenix Trust, per aiutare a combattere l’AIDS in tutto il mondo.
Nel film viene poi mostrata, anche se superficialmente, la storia d’amore tra Freddie e Jim Hutton durata circa sette anni. Al contrario di ciò che si vede in “Bohemian Rhapsody”, Hutton venne considerato sempre e solo come il suo giardiniere dalla famiglia del cantante.
“God Save the Queen”
Sarà la passione che ho per la loro musica fin dall’infanzia oppure l’inevitabile attrazione che mi provoca il loro carisma, ad avermi fatto piangere e sorridere durante la parte finale di “Bohemian Rhapsody”, in cui è stata riprodotta con grande maestria la loro esibizione al Live Aid. In sale non c’era nessuno a non muovere almeno la testa al ritmo delle loro canzoni. Ma sfido chiunque a resistere al richiamo del ritornello di “We are the Champions” ed a non battere le mani ed i piedi con “We will rock you”, nata apposta per far si che ci fosse maggiore interazione tra band e pubblico.
Perché vedete, cari lettori, in quel momento ho avuto la sensazione di essere lì, a Wembley, assieme a loro. Ho creduto, seppur per poco, di aver preso parte a quell’esibizione, di aver contribuito a “creare un buco nel cielo”, come dice Freddie nel film. In sala ci saranno state tre generazioni diverse, ognuna con il proprio modo di pensare e di vedere le cose, ma che in quegli istanti hanno cantato all’unisono, tutti uniti perché accomunati dall’amore per la loro musica, alla quale ci si sente legati, ci si sente di appartenere fin da sempre.
Ed alla domanda su cosa abbiano i Queen di diverso dalle altre band, Freddie Mercury, interpretato da un eccezionale Rami Malik, al quale gli spetta d’obbligo la nomination agli Oscar, non poteva dare risposta più esaustiva:” Siamo quattro emarginati male assortiti che suonano per altri emarginati”. I Queen erano infatti unici nella loro diversità , erano quattro numeri primi che si sono incontrati, dando vita non ad un gruppo di rockstars, bensì di vere e proprio leggende viventi.
Nonostante il film fosse terminato, siamo tutti rimasti ad ascoltare la loro musica mentre sullo schermo scorrevano i titoli di coda. Era come se avessimo paura di perderci qualche altro spezzone, qualche altro momento insieme ad i Queen. Accese di nuovo le luci in sale, ognuno di noi è ritornato alla propria vita perché dopotutto lo spettacolo deve continuare.
Qui Alessia, grazie per l’attenzione! Se non l’avete ancora visto, correte al cinema!!