Una delle costanti dei film e delle serie tv presenti Netflix è la diversità, intesa in tutte le sue molteplici sfaccettature: storie incentrate sulla comunità LGBT, disabilità e, più in generale, su protagonisti che hanno ben poco a che vedere con ciò che è considerato standard. Se apprezzate questo tipo di contenuti, una vera chicca vista qualche giorno fa è Carrie Pilby, film del 2016 basato sull’omonimo best-seller scritto da Caren Lissner.
Trama
Carrie ha diciannove anni ed è una bambina prodigio: ha saltato talmente tante classi da iniziare il college a quattordici anni, laureandosi con il massimo dei voti ad Harvard 4 anni dopo. È una ragazza dalla parlantina incredibile, capace di intavolare conversazioni su qualsiasi argomento, in grado di leggere moltissimi libri senza averne mai abbastanza: insomma, tutto in lei urla “sono brillante”.
Ma, come spesso accade ai geni, Carrie ha molti problemi a relazionarsi con gli altri, complice anche il frequentare persone necessariamente più grandi ed esperte di lei. Come se non bastasse, ha un rapporto burrascoso col padre – spesso assente quando lei avrebbe bisogno di lui – e ha perso la madre quando era ancora una bambina.
Durante una seduta dallo psicologo, le viene proposta una sorta di sfida: scrivere una lista di cose da fare per essere felice che vadano oltre alla sfera accademica. Accudire un animale, andare a un primo appuntamento, rileggere il proprio libro preferito: una lista iniziata solo per provocare scatenerà un effetto domino enorme, trascinando Carrie in un mondo che le era perlopiù sconosciuto e ricordandole l’arte di essere fragili.
Commento
Se questo film funziona è in primo luogo grazie alla credibilissima performance di Bel Powley, che dà il volto a Carrie con una naturalezza ineccepibile. Perché questo film piace? Perché per quanto possa essere inusuale riconoscersi al 100% in Carrie, tutti almeno una volta ci siamo sentiti un po’ fuori dal mondo per un qualsiasi motivo.
Il fatto che il suo Q.I. altissimo sia ciò che più la penalizza mi ha fatto sorridere e i riferimenti alla sua continua solitudine mi ha ricordato molto un libro che ho adorato e letto l’anno scorso, Eleanor Oliphant sta benissimo, di cui vi ho parlato QUI.
Pur non mancando i momenti di ilarità che strappano qualche risata, questo film mi ha fatta riflettere e ammetto di aver avuto gli occhi lucidi in ben più di una scena. Così come succede nel libro di Gail Honeyman, anche in questo caso ciò che spinge Carrie a cambiare sono le persone, costringendola a uscire dalla sua comfort zone e accettandosi per quella che è: un essere umano.