«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:
- di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento;
- di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;
- di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario;
- di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona;
- di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
- di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica;
- di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;
- di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;
- di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali;
- di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;
- di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
- di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico;
- di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente;
- di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;
- di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.»
-Giuramento di Ippocrate moderno
E’ sabato. Giugno è appena iniziato e io e le mie amiche decidiamo di uscire nel centro città. Alessandria è una città piccola, non c’è mai molto da fare. Ma quel giorno era stato organizzato il primo Pride. Volevamo andare tutte insieme, per solidarietà. Inizio a prepararmi nella mia camera quando improvvisamente inizio a sudare, mi viene da piangere, tremo, mi paralizzo. Cosa fare quando sei da sola in casa, paralizzata e spaventata? Raggiungo il telefono con le poche forze che ho. Chiamo il mio fidanzato, lui chiama un’ambulanza. Pochi minuti dopo arrivano i paramedici, striscio in terra piangendo per arrivare fino alla porta. Mi aiutano a sedermi, mi aiutano a pulirmi il viso (mi sono vomitata addosso) e mi misurano la pressione. Mi dicono di stare tranquilla che arriveremo presto in Pronto Soccorso.
Entriamo. Mi mettono a sedere su una sedia a rotelle e mi portano nella sala del Triage. Un giovane medico inizia a farmi delle domande: cosa è successo, cosa mi sento, se prendo farmaci, se sono sotto stress. Gli dico che sono in terapia da un pò di anni e che recentemente ho iniziato a prendere psicofarmaci. Antidepressivo e sonnifero per dormire la notte. Lui alza un po’ gli occhi.
Aspetto. Passano circa 5 ore e mi fanno finalmente incontrare lo specialista. Lui mi liquida dicendo che è tutto dovuto ad attacchi di panico, legati alla mia “malattia”. Nella mia testa penso che ciò che dice sia tutta un’ovvietà: vado dallo psichiatra, sono a conoscenza dei miei problemi. Mi lasciano andare a casa. Il referto dice “Forte attacco di panico. Tendenza ipocondriaca.”
Passa un mese. Una notte mi alzo per andare in bagno, tornando in camera per sbaglio metto male il piede e cado dalle scale. Batto la schiena e la testa. Dopo vari dolori al collo e alla schiena, di malavoglia mi faccio accompagnare da mia mamma in Pronto Soccorso. Dopo tanta attesa un medico mi visita: esami del sangue, ecografia, misurazione della pressione e del battito cardiaco. Vede la mia cartella clinica con l’elenco dei farmaci che prendo e si zittisce. Mi mettono sulla barella e aspetto. Dopo aver fatto raggi e Tac mi dicono che posso andare a casa. Nessuna frattura. Mentre l’infermiere mi toglie la flebo, il medico mi dice che “devo cercare di stare tranquilla e non farmi prendere sempre dal panico” e mi consiglia il referto. Salgo in macchina e leggo il foglio: come detto nessuna frattura, ma leggo “lieve trauma cranico” con allegati i risultati dei miei esami del sangue e dei consigli su come gestire il trauma nel caso si verificassero effetti quali nausea, giramenti di testa e appannamento della vista. Tutti sintomi che ho specificato di avere al mio arrivo in ospedale. Da lì mi arrabbio: non solo hanno omesso il fatto che avessi un trauma cranico, seppur lieve e si sono dimenticati di spiegarmi come gestirlo, ma mi hanno etichettata come quella che va in ospedale dopo essere caduta che essendo sottto psicofarmaci non avrebbe diritto a essere lì perchè “è solo ansia”
Ho 20 anni, curo la mia depressione e per questo non ho diritto ad andare al pronto soccorso dopo una caduta ed essere trattata normalmente?
Il problema vero e proprio è che nel 2019 noi “pazzi” o “malati di mente” siamo ancora trattati come feccia. Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia; non perchè io sia costretta a curare ansia e depressione, ma perchè mi tocca abitare in una città in cui vengo etichettata per i farmaci che prendo.
Non dite mai a una persona ansiosa di stare calma. Non possiamo. Non lo facciamo apposta. Ma soprattutto voi, specialisti che dovrebbero curare le persone, che hanno promesso di aiutarle, non giudicate una caduta dalle scale dovuta a una distrazione come un disturbo psichiatrico. E soprattutto comunicate a voce il problema al paziente.
-Aurora