Ciao a tutti e a tutte! Vi ho già parlato dello spettacolo teatrale -adattato dall’omonimo film- “La classe operaia va in paradiso” ma ad oggi, dopo più di tre mesi dalla visione dello spettacolo, vi voglio proporre un’analisi differente sperando di non essere ridondante rispetto alla mia precedente recensione, che trovate qui.
Questo è uno spettacolo che ho sentito più “mio” di quanto potessi immaginare, è stato bello vederlo ma non avrei mai immaginato di poterne parlare ancora dopo tre mesi, per il semplice fatto che non avrei mai pensato che mi sarebbe rimasto così tanto dentro. E invece, contro ogni previsione, non riesco a togliermelo dalla testa e, più per diletto che per altro, ho provato a buttare giù qualche riga e ne è uscito quello che leggerete.
Cosa mi ricordo?
Le sensazioni. Questo è quello che davvero mi rimane dentro, la sensazione che ci dà Lulù di voler davvero “spaccare tutto e occupare il Paradiso”, perché lui ci crede, quantomeno all’inizio. La sensazione di fare davvero parte di quel mondo, pur essendo nel 2019. La sensazione di non poter fare a meno di lottare per un mondo nuovo, pur essendo perennemente incatenati alla volontà altrui. La sensazione di esserci ma non quella di contare: gli operai ci sono ma di fatto non contano, fanno numero, sono sfruttati, vanno avanti come possono ma non hanno la piena coscienza di quello che fanno.
Le recensioni in rete e non
Dalle recensioni che si trovano in rete traspare una cosa su tutte: la densità dello spettacolo, per molti c’è “tanto” nello spettacolo, per me c’è “tutto” e la differenza è sostanziale. Anche mentre tornavo a casa dopo aver visto lo spettacolo, in treno sentivo i commenti di chi, come me, era stato a teatro e tutti più o meno concordavano sul fatto che ci fossero troppe cose: pezzi di film, canzoni, riferimenti al mondo attuale… Ho sentito tante persone dire e scrivere “è lungo”, “dura troppo”, “rischia di disorientare lo spettatore”, invece secondo me, pur seguendo binari differenti ma paralleli, riesce a lasciare qualcosa a chiunque. Concordo sul fatto che lo spettacolo manda una molteplicità di segnali non indifferenti ma sta allo spettatore coglierli e non credo che lo spettacolo perda di valore se non vengono colti tutti.
Dal “quaderno di sala”
Ci sono da fare i tempi dello spettacolo. Dai dai dai che bisogna andare in scena. Ma come il copione non è ancora arrivato!? Dai dai dai che dobbiamo fare la prima lettura. La catena di montaggio è partita: il ritmo deve essere una scena al giorno…per essere precisi!
Questo è solo l’incipit del pensiero di Simone Francia -uno degli attori-, che ho tratto dal quaderno di sala de “La classe operaia va in paradiso”. Ci tenevo a riportarne almeno una parte perché trovo che, con la giusta ironia, riesca a fare capire qual è l’anima dello spettacolo: l’ossessione per la perfezione, il rientrare dentro certi schemi, in un tempo prestabilito. Se ci pensiamo non siamo distanti dalla nostra vita, dove tutto ha un tempo, dove tutto deve procedere in un determinato modo e guai se le cose vanno lievemente fuori dal loro binario.
Guardare le foto e rivivere i momenti
Non sono una grande fan delle foto per ricordarsi i momenti, penso che le cose rimangano intrappolate nel cuore senza avere necessariamente una fotografia a fare da supporto. Dello spettacolo ho due foto sole, fatte rapidamente ai saluti finali ma guardando quelle “ufficiali” presenti in rete mi sono resa conto del fatto che mi ricordo tutte le sensazioni provate mentre guardavo gli attori muoversi sul palcoscenico. Se mi chiedeste una frase che mi è piaciuta particolarmente non vi saprei rispondere: non le ricordo. Ricordo però cosa ho provato e cosa ha lasciato in me ogni singola scena: credo che questo sia un fatto importante perché percepire le emozioni da una foto “asettica” è qualcosa di meraviglioso, secondo me.
La funzione politica del teatro
L’ultimo punto di questa insolita analisi è forse il più importante sul piano del significato dello spettacolo. Ho letto interviste su interviste sia degli attori che dei registi de “La classe operaia va in paradiso” versione teatrale per cercare di toccare con mano cosa intendessero con “teatro politico” e sono giunta alla conclusione che è quel teatro realizzato per cercare di formare il pubblico. La formazione del pubblico, bene o male, secondo me avviene sempre ma in questo spettacolo ha una grande importanza perché si basa su fatti reali, su ciò che accadeva effettivamente un tempo. Penso, però, che questo fatto venga poco percepito o che, comunque, passi in secondo piano, cedendo il posto al puro divertimento. Lo spettacolo, secondo me, non ha nulla di ludico: è la trasposizione schietta e cruda di quegli anni e riesce a formare il pubblico anche se il pubblico non vuole essere formato.
Un’immagine su cui riflettere
Prima di chiudere vi lascio solo un’immagine, che secondo me rende benissimo l’idea di ciò che volevano tramandare Petri e Pirro e di ciò che hanno voluto riprendere Di Paolo e Longhi a teatro.
Cosa ne pensate? Scrivetelo nei commenti!
Ilaria