Ari Aster, classe 1986 è un giovane e promettente regista che ha al suo attivo già l’ottimo “Hereditary”. Con questo suo nuovo film, “Midsommar”, ci porta in Svezia e ci mette di fronte a quesiti davvero importanti.
La storia inizia con una coppia in crisi che però non riesce a mettere la parola fine alla propria relazione a causa di un enorme lutto che Dani, la nostra protagonista, subisce. Il viaggio che Christian, il suo ragazzo, aveva in mente di fare con il suo gruppo di amici diventerà quindi il modo per riavvicinarsi dal momento che anche lei viene invitata. Arrivati nella comunità i nostri protagonisti cercano di adattarsi. Il processo non è faticoso, tutti sono gentili e, nonostante i rituali siano strani, sono molto interessanti soprattutto in funzione di una tesi di laurea che sia Christian che un suo amico vogliono scrivere. Quello che però accadrà di lì a poco cambierà la percezione che i nostri protagonisti hanno del luogo.
Se la maggior parte dei film horror (Hereditary compreso) sfrutta l’oscurità e i luoghi angusti per creare ansia questo Midsommar fa l’esatto opposto. Il sole non tramonta mai nell’estate nordica, tutto è chiaro, bucolico e si svolge in grandi spazi aperti eppure la claustrofobia si sente eccome. Grazie a una regia che raggiunge dei livelli altissimi, delle scenografie perfette, una fotografia che valorizza i personaggi e i colori vivaci ma soprattutto una scrittura praticamente perfetta proviamo empatia per i nostri protagonisti, soprattutto per Dani. Oltre a questo la comunità che è stata creata da Ari Aster è perfettamente credibile, caratterizzata e stratificata. Ci sono simbologie, una lingua runica, rituali, dipinti e danze. Tutto è vivo e pulsante e a un certo punto ci si sente proprio lì con tutti loro. Gli spazi ci diventano familiari e in qualche modo riusciamo ad assimilare alcuni meccanismi dei vari rituali.
Dunque, c’è tanto colore, tantissimo folklore ma cosa c’è oltre a questo? Qual’è il messaggio che vuole passare? Sono persone crudeli o sono semplicemente diverse da noi?
Per prima cosa Midsommar ci insegna che il rispetto della tradizione è importante quando ci approcciamo a qualcosa di diverso. Il regista ci porta a riflettere sul nostro modo di vedere il mondo e su quanto ognuno sia il “barbaro” per qualcun altro.
Un altro aspetto importante è il fattore psicologico e l’accettazione del lutto e della fine di una relazione qui simboleggiati nella scena finale che lascerò a voi scoprire.
Midsommar è un lento discendere nell’orrore che l’uomo può compiere, è uno studio antropologico che potrebbe somigliare a quello che alcuni uomini hanno vissuto in passato andando fuori dall’Europa ma, in questo caso, con un procedimento inverso. È una contraddizione, un’ipocrisia che ci spinge quasi a non battere ciglio per un duplice omicidio in America ma a restare sconvolti per un duplice suicidio. È l’opposto dell’horror a cui siamo abituati e per questo è ancora più straziante.
Non c’è salvezza se non nella comunità. L’individualismo made in U.S.A può solo portare alla disperazione, ci ammutolisce, ci paralizza in noi stessi. Se provassimo ad essere meno materialisti potremmo stare meglio o comunque qualcosa di guasto c’è sempre nell’uomo? Ci troviamo di fronte a un Christian quasi perennemente inebetito, non è di certo un caso. In questo nostro presente così legato al mondo materiale la dimensione spirituale viene meno. Abbandoniamo l’ossessione al materiale e scaviamo più a fondo, nelle nostre paure, non negli spaventi. Solo così l’horror ha senso di esistere.
Niente bambole né possessioni, Midsommar ci scuote nel profondo mostrandoci ciò che siamo: ammassi di insicurezze, ipocrisia, materialismo e progetti effimeri. Non ci sentiamo mai sbagliati ma dobbiamo imparare a capire che lo siamo eccome, non siamo anime pure. E sapere questo dà un grande fastidio.
Lorenzo