Nessun simbolo è stato altrettanto significativo per la mia generazione quanto John Rambo, e nessuno avrebbe potuto imporlo all’attenzione dell’immaginario collettivo se non Sylvester Stallone.
Se Sly è Rambo, Rambo è Sly, ma anche molto di più: campione dei diseredati, reietto tra gli uomini, John Rambo incarna l’anelito alla rivalsa proprio di ogni individuo privato di un posto nel mondo, e quando ciò non sia possibile, la sua legittima aspirazione alla vendetta.
Se Rocky affronta gli avversari sul ring, uomo a uomo, Rambo li annienta col fuoco e l’acciaio, e poco importa se siano cento contro uno. Come nessun altro sul grande schermo o tra le pagine di un libro, Rambo è la furia, il peggior incubo dei sopraffattori, la nemesi di ogni tirannia. E come tutti i guerrieri, è solo, la morte quale unica compagna, giacché gli affetti non possono durare a fronte di un simile retaggio. “Vivi per niente, o muori per qualcosa” era il motto inequivocabile del quarto film, quel John Rambo fino a oggi considerato l’ultimo capitolo della saga: poche parole che riassumono perfettamente l’essenza del personaggio.
Con poco o nulla per cui vivere, l’esistenza acquisisce significato immolandosi per una causa superiore; al pari degli eroi omerici Rambo è una figura tragica, e nel destino segnato risiede la sua grandezza.
Riesumato per motivi economici o ambizioni autoriali, e posto davanti a un nemico invincibile, ovvero una pessima sceneggiatura, l’ex berretto verde trionfa contro ogni aspettativa, perché Last Blood è si un film brutto, ma anche l’ennesima prova di un interprete immortale.
Stallone è vecchio, la chioma non è più quella esibita solo qualche anno fa ne I mercenari, né lo è con tutta probabilità il fisico, che non viene mai mostrato. Il volto segnato appare tuttavia intatto, indomito, ardente. Viene da chiedersi se il cancro di Rocky Balboa in Creed non sia l’eco di una battaglia analoga, combattuta da Stallone nella vita reale, e tenuta segreta, nella miglior tradizione delle star del cinema d’azione che non possono mostrarsi vulnerabili al pari dei normali esseri umani. Il quesito indugia nella mente dello spettatore per non più di una manciata di secondi, perché, come già scritto, Rambo è l’uomo che lo interpreta ma anche, soprattutto, molto di più: non appena la telecamera gli dedica un primo piano, ogni incertezza svanisce; non esiste buco nello script o montaggio grossolano in grado di intaccarne l’intensità, la magnifica forza cui l’età conferisce tuttalpiù un valore aggiunto.
Last Blood lascia in bocca un sapore amaro, metallico: sarebbe potuta andare meglio, ma va bene anche così.
Se non vi è piaciuto, siete delle merde.
E respirate solo in virtù della pietà di John Rambo.