Ho iniziato questo libro seguendo due motivi ben precisi: perché me lo hanno consigliato in tantissimi, ma, soprattutto, perché me lo ha regalato una delle persone a cui voglio più bene, con una dedica che ha stuzzicato la mia curiosità: “Cerca la frase sottolineata”. E io, competitiva come sono, non potevo non accettare un guanto di sfida del genere.

Ma andiamo con ordine. Eleanor Oliphant sta benissimo è il romanzo d’esordio di Gail Honeyman, scrittrice scozzese che ha raggiunto vette altissime con questo libro, tradotto in 35 lingue e caso editoriale a livello internazionale. Il romanzo racconta la storia di Eleanor Oliphant, una donna trentenne che – dopo un’intera vita al centro dell’attenzione, tra una mamma subdola, mille famiglie affidatarie e una cicatrice in bella vista – decide di limitare ai minimi termini il contatto umano. Come? La chiave di questo libro è la solitudine, una condizione a cui Eleanor si abitua così tanto da scambiarla per normalità.

Eleanor Oliphant sta benissimo è, a mio parere, uno di quei libri che divori nel giro di qualche giorno, che ti fa perdere la cognizione del tempo. E questa scorrevolezza non si deve agli eventi che si snodano nel corso della trama, dato che, essenzialmente, seguiamo la vita di Eleanor come degli spettatori incuriositi dal suo modo di fare. Quello che, personalmente, mi ha catturato, è stata proprio lei, la nostra Jane Eyre 2.0.

La prima cosa che mi ha colpito è il modo che Eleanor ha di descriversi, una descrizione che cambia nel corso del libro. All’inizio, la nostra protagonista conclude la sua riflessione dicendo: “Aspiro alla medietà. Sono stata al centro di fin troppa attenzione in vita mia. Ignoratemi, passate oltre, non c’è nulla da vedere qui”. Leggendola, ho avuto l’impressione che Eleanor si considerasse una specie di fenomeno da baraccone, un incidente d’auto  che, da un lato, spaventa, ma dall’altro attira i curiosi che vogliono saperne di più. Una catastrofe ambulante che vorrebbe solo confondersi con lo sfondo. È da qui che il lettore intuisce che il narratore ha qualcosa da nascondere, un evento tragico che l’ha messa sotto ai riflettori per tanti anni. Poco dopo, ci viene dato un indizio: “Di solito non mi guardo allo specchio. Questo non ha assolutamente nulla a che fare con le mie cicatrici”. Mi è venuto spontaneo chiedermi: cosa ha distrutto la vita di Eleanor? Un incidente? I segni di una brutta malattia? Ma soprattutto, la domanda che domani durante tutte le 300 e passa pagine è: chi è davvero Eleanor Oliphant?

Eleanor è una donna sola, una donna così strana da risultare quasi insopportabile nel corso della narrazione, Ci sono state volte in cui avrei solo voluto prenderla per le spalle, scrollarla e urlarle di svegliarsi, di smetterla di parlare come un’eroina ottocentesca e di scoprire il mondo, invece di nascondersi. Una donna che non ha la più pallida idea di come si usi un telefono o un computer, una donna che parla di “rotocalchi” invece di semplici giornali e che fugge dal contatto umano. Una donna con un problema enorme di nome “mamma”. A mano a mano che la storia va avanti, entriamo sempre più nei dettagli di questo rapporto malato, curato settimanalmente come un rituale, come un’abitudine tossica che ha davvero poco a che vedere con l’affetto madre-figlia. La signora Oliphant, nel corso delle loro brevi telefonate, non perde mai occasione per distruggere la figlia. Ma anche in questo caso, tutto quel che sappiamo si basa sull’intuizione, niente ci viene mai detto direttamente nemmeno da Eleanor, che si rifiuta di entrare nei dettagli. Quel che sappiamo è che si tratta di una donna rinchiusa chissà dove – un ospizio? Una prigione? Un manicomio? – che chiama la figlia ogni mercoledì per il puro gusto di vederla annaspare. Una donna con una lingua al vetriolo, a giudicare da quello che si legge fin dalla prima conversazione: “Tu non capiresti, certo, ma il legame madre e figlia è… come descriverlo nel modo migliore… indistruttibile. Noi due siamo legate per sempre, capisci? Sei cresciuta dentro di me, i tuoi denti, la tua lingua e la tua cervice sono fatti tutti con le mie cellule, i miei geni. Chissà quali sorprese ho lasciato crescere dentro di te, quali codici ho messo in moto? Cancro al seno? Alzheimer? Devi solo aspettare e vedrai.” Be’, di certo non il tipo di madre che ti augura il buongiorno ogni mattina e ti chiede se hai mangiato. Fin da queste prime, velenosissime righe, capiamo che la signora Oliphant è una delle origini del male, uno dei motivi per cui Eleanor scappa da tutto e da tutti.

Eleanor è sola, Eleanor è irrimediabilmente fuori dal mondo e, il più delle volte, fuori luogo, come se non avesse un filtro tra cervello e bocca. Un po’ per la madre, un po’ per il suo passato fin troppo ingombrante, si è rinchiusa in un regime di solitudine che a chiunque farebbe mancare l’aria, ma non a lei. Per questo sostiene di stare benissimo: perché ammette candidamente di non ricevere visite da un anno, di non andare a una festa da quando ne aveva 13, di non aver mai mangiato con qualcun altro in casa sua. Surreale no?

Ma a un certo punto succede qualcosa: durante un concerto, Eleanor si innamora e inizia ad abbassare tutte le difese che aveva issato per tutta la vita. Perde la testa per un musicista e vive quell’amore nell’unico modo che conosce: facendo ricerche su ricerche, credendo di conoscerlo perché sa cosa ha scritto su Instagram o cosa compra al supermercato. Ed è così che il regime di isolamento di Eleanor inizia a cozzare con degli ostacoli imprevedibili: le persone. Gli esseri umani a cui non è minimamente abituata si intrufolano nella sua routine maniacale, buttando tutto all’aria. Succede tutto per caso, per colpa di un vecchio signore che si sente male proprio mentre Eleanor sta tornando a casa in compagnia di Raymond, un collega con cui non aveva scambiato mai nemmeno una parola. Il lettore percepisce il cambiamento di Eleanor in maniera graduale, come un animale spaventato che non sa minimamente come comportarsi. Lo vediamo quando accompagna Raymond dalla madre, una vecchia signora che la riempie di faccende e complimenti, e che la spinge a chiedersi se davvero la sua vita da eremita sia la strada da seguire. “Per due volte in un giorno ero stata oggetto di ringraziamenti e sguardi calorosi. Non avrei mai sospettato che qualche piccola azione potesse suscitare reazioni così sincere e generose. Sentì un piccolo bagliore dentro di me – non un incendio, ma più come una specie di fiammella costante.” Questa è Eleanor: una donna così abituata a stare da sola da non saper riconoscere il bene, la luce. Una luce che, però, si fa strada in lei progressivamente, spingendola a migliorare. Perché così funziona Eleanor; non prova niente di nuovo, evita anche la più piccola deviazione e si trattiene anche nel mostrare gioia o stupore. Si tratta di un contrasto continuo tra il suo essere così stoica, una trentenne tutta d’un pezzo che ne ha passate di tutti i colori e il suo lato fanciullesco, che sa essere felice solo per essere uscita dalla sua gabbia arrugginita. Come un uccellino che, di tanto in tanto, si concede un’ora d’aria per tornare a volare.

Ma la libertà di Eleanor ha un prezzo e quel prezzo, ancora una volta, si chiama “mamma”. Eleanor è così tanto presa dalla sua nuova vita “sociale” che, per una volta, salta una telefonata. La madre non si compiace delle conquiste della figlia, del suo progetto amoroso sempre in corso, bensì la affossa, ricordandole ciò che non le permetterà mai di essere libera davvero: il suo passato.

È stato rigenerante vedere la rinascita di Eleanor e vederla affrontare il mondo anche dopo le peggiori cadute. Un nuovo taglio di capelli, un gattino che le gira per casa, un amico su cui poter sempre contare per un pranzo fuori: sono tutte piccole cose che, per lei, valgono come il mondo intero. Trovo vincente il fatto che l’autrice sveli a poco a poco i dettagli del passato di Eleanor, dando al lettore un valido motivo per continuare a leggere, e sono rimasta alquanto stupita dal colpo di scena finale.

È vero, la protagonista di questa storia dolceamara è Eleanor, ma io vorrei fare una menzione speciale a tutti quei personaggi più o meno secondari che le permettono, nel corso della storia, di ricordarsi di quanto possa essere bello vivere, invece che osservare passivamente.

Un libro consigliato a chi sa ancora stupirsi delle piccole cose, chi coglie i dettagli e a tutti quelli che sottovalutano la solitudine, un po’ come facevo io.

Voto: 4/5

 

Questa recensione, così come molte altre, è disponibile anche sul mio blog personale – Storia di un’accumulatrice di libri

Al prossimo libro!